Tre domande a Marco Scotini, curatore della retrospettiva su Laura Grisi al Muzeum Susch (CH), giugno 2021.
Pubblicata da hotpotatoes.it nel focus: “L’aria è la certezza visiva di uno spazio: Laura Grisi”
- Guardare retrospettivamente (o storicizzare in modo retroattivo) un’artista come Laura Grisi non significa soltanto colmare una lacuna storiografica e ricollocarla nella scena artistica italiana degli anni Sessanta e Settanta, oltre l’egemonia dell’Arte Povera ma «trovare delle chiavi di accesso a tematiche contemporanee come il genere, l’ecologia e l’interculturalità», hai dichiarato. Cosa aggiunge questa grande retrospettiva museale, The Measuring of Time, concepita per Muzeum Susch, posticipata più volte per l’emergenza pandemica e che inaugurerà il prossimo giugno, a cui stai lavorando smisuratamente e da tempo?
Marco Scotini: Senza cercare altri meriti, si tratta della prima ampia mostra monografica di Laura Grisi. Anche se l’esposizione si focalizza solo sui primi due decenni della sua attività, credo che nessuno abbia mai potuto vedere tante sue opere assieme. Neppure la stessa artista. L’unica cosa che poteva colmare questa lacuna era un importante libro monografico curato da Grisi con Germano Celant. Edito da Rizzoli e con progetto grafico di Max Vignelli, il libro risale però a trenta anni fa. L’occasione offerta da Muzeum Susch e dalla programmazione che Grazyna Kulczyk dedica alla riscoperta delle soggettività femminili, sposta – già come tale – l’attenzione di questo nuovo episodio.
La lettura che se ne dà è dunque non solo diversa ma, per molti aspetti, inedita. Laura Grisi è una grande rappresentante degli anni Sessanta e Settanta e, con la sua generazione, condivide l’aspirazione a voler tutto. Ma cos’è questo “tutto” per Grisi? In che senso il “tutto” di Grisi si rapporta a quella più generale mira comune? Pare che il termine “tutto” non ammetta declinazioni perché non intende escludere parti. Eppure la prima cosa che si possa dire è che questo tutto non coincide con l’unità. Nessuna totalità, nessuna univocità, nessuna unidirezionalità. Solo proliferazione, infinita ripetizione senza soggetto. Il carattere cool, de-soggettivante del lavoro di Laura Grisi ne è una esplicita dimostrazione. Il molteplice non è ricomponibile, il vuoto del soggetto non è colmabile, l’etereo non diventa solido. Dietro ogni presunta uniformità c’è l’innumerabile frazionabilità delle cose, dello spazio. Il fantastico 16mm The Measuring of Time che dà il titolo alla mostra è anche questo, non solo una sfida al tempo e all’impossibilità di misurare l’incommensurabile. Ogni granello di sabbia riflette tutti gli altri senza essere uguale a nessun altro. Quando invece Grisi parte da un numero finito, come 5 ciottoli o le 64 caselle di una scacchiera, ecco che permuta e moltiplica le loro combinazioni possibili e gli elementi che alla fine ci mostra sono decuplicati.
Ma questo processo metto in atto da Grisi non avrebbe senso se si prescindesse da un discorso sulla interculturalità, o da una ecologica che la spinge a visualizzare non le cose ma il medium attraverso cui queste diventano possibili. È sorprendente come tutte le letture che di Grisi sono state date, in qualche modo, tralasciassero i due fattori essenziali della sua attività: la fotografia da un lato e le culture dall’altro. Le culture indigene che incontra a partire dalla fine degli anni Cinquanta e che cattura con la Rolleiflex o la Hasselblad metteranno in crisi il presunto sguardo oggettivo, naturalista e occidentale della fotografia. Non a caso in mostra sarà esposto parte di quell’inventario di mondo, costituito da oltre 5000 fotografie, che è all’origine dell’attività di Laura Grisi e, in qualche modo, la determina. Non ultima novità della mostra è il fatto che tale corpus non è mai stato esposto!
- In “L’oblio dell’aria” Luce Irigaray afferma: «la presenza non è forse il Gestell disposto dall’uomo per rendere impossibili certi incontri con la natura?»: se nella vocazione alla rigidità del pensiero filosofico e metafisico (oltre che economico), l’aria è diventata materia di misurazione, Laura Grisi resta una sorta di “presenza assenza” dell’arte ma il suo rapporto con la natura, nella comprensione dell’umano al di là dell’umano, è ben definito: come sarà documentato (o meglio raccontato) in mostra questo aspetto di temporalizzazione dell’impermanenza, del rapporto tra la totalità e l’inconoscibile, dell’aria e la sua immaterialità?
MS: Diciamo che l’intero lavoro di Grisi è una rivendicazione dell’aria contro il suo oblio. Tutta la sua attenzione si concentra su quel medium che organizza tanto la nostra percezione quanto la nostra vita, che mette in rapporto il tutto con sé stesso. È l’aria che ci permette di vedere le cose, di sentirle, di farne esperienza ma lei stessa è invisibile, impercettibile. Si sottrae all’apparenza: incolore, immateriale. È a tal punto ovunque che anche se l’attraversiamo non ce ne accorgiamo. Tuttavia non dobbiamo aspettare gli ambienti di Grisi per notare nel suo lavoro questa presenza atmosferica: fa la sua comparsa fin dal ciclo delle Pitture Variabili del 1966.
In mostra sarà ricostituito il grande dittico che l’artista presenta alla Biennale di Venezia quello stesso anno. Questo non si dà come immagine definitiva ma muta un certo numero di volte, grazie a quinte scorrevoli che lo spettatore può spostare. La cosa sorprendente è come, ricorrendo al modello della cornice-finestra, l’artista imponga al paesaggio (nuvole, onde, terra) una suddivisione geometrica in pannelli che sovra-inquadrano, reinquadrano e moltiplicano in senso fluido l’effetto di immagine nell’immagine, come in una sorta di mise en abîme. In sostanza c’è una meteorologia dell’immagine che sarà poi ulteriormente sviluppata con l’inserimento di neon e stratificazioni di plexiglas a grana differente nelle opere successive, dove il virtuale e l’intangibile cominciano a insinuarsi nel tessuto del quadro. Se ne era accorto Fagiolo dell’Arco quando scriveva che Grisi “raggiunge la sfocatura della memoria senza dimenticare la fredda proiezione del reportage”. E si chiedeva “Plexiglas come? Come luce, come aria, come nuvole, come atmosfera, come luce”. Dunque questa ricerca continuerà ad agire in modo più esplicito con l’effetto della nebbia, del fenomeno ottico dell’arcobaleno, di quello della rifrazione della luce e dell’acqua, del vortice, del vento. In questo passaggio Grisi decide di abbandonare radicalmente ogni di tipo rappresentazione e convertire i segni in forze, il piano in ambiente, l’esposizione in situazione, il duraturo in evento. Non c’è solo il parallelo con le Atmosfere colorate di Judy Chicago ma credo potremo vedere una direzione tutta al femminile anche nell’adozione del vento: da Rhythm 4 (1974) di Marina Abramovic fino a Be Careful With What You Wish For di Monica Bonvicini – il potente ventilatore nel foyer di Kunst Werke nel ’98. Si potrebbe continuare a lungo ma l’aria in Grisi è sempre un segno o sta per il “possibile”.
- Laura Grisi «incarna una sorta di soggetto femminile apolide e nomade», così l’hai definita nel comunicato stampa, sia come percorso elusivo a ogni classificazione, impossibile da incasellare dentro l’ordine (patriarcale) della narrazione modernista, sia alludendo ai numerosi viaggi con il compagno documentarista Folco Quilici: la sua personale cosmogonia nell’analisi ricorsiva (e pionieristica) delle fenomenologie atmosferiche dei suoi environments – dalla pioggia e l’aria, dal vortice al vento, la nebbia, fino ai fenomeni fisici, dalle rifrazioni all’arcobaleno – come “generatori di spazio”, rivela una profonda connessione con lo spettro delle soggettività non umane, vegetali e minerali, in una prospettiva ecofemminista, non certo per l’allineamento ancestrale di donna-natura o in nome di un’essenza astorica e simbolica del femminile, mentre è forte la tentazione di leggere in queste opere una femminilizzazione delle strutture semio-narrative e percettive dell’essere e del pensiero…
MS: La difficile collocazione del lavoro di Laura Grisi non giustifica affatto la liquidazione che, in un certo senso, ne è stata fatta. Se oggi, da un lato, ci risulta ovvio vedere la matrice patriarcale degli ordinamenti e dei canoni storiografici che abbiamo ereditato, dall’altro lato non siamo ancora riusciti a costruire delle controstorie. Anche se un giorno (fortunato) arriveremo a scriverle. Rimane il fatto però che c’è un’attualità di Laura Grisi che non può più trattenerla nei margini che le hanno assegnato
Credo che in Grisi ci sia una epistemologia e un’estetica che sfidano le politiche dell’identità, la univocità della rappresentazione e l’unidirezionalità del tempo. Ciò di cui Grisi è alla ricerca è un modello percettivo e diagrammatico in grado di sperimentare nuove pratiche creative come modo di pensare e agire. Lo spazio della rappresentazione è il luogo del suo intervento. In questo sta la sua ecologia: senza confondere naturale e culturale, si serve di letture fisico-matematiche per capire cosa abbiamo perduto o non abbiamo mai trovato. Queste si uniscono alla conoscenza dei riti e del pensiero magico che, nei suoi viaggi, ha incontrato. Certo: in gioco ci sono – senza gerarchia – tutte le forme di vita. Il suo racconto “I denti del Tigre” del 1964, è la testimonianza del confronto con le classificazioni totemiche e dei fenomeni atmosferici più diversi trovati negli atolli polinesiani, dove trascorre più di un anno. In questo senso il suo libro d’artista Distillations: Three Months of Looking (1970) e le due audiocassette di nastro magnetico Sounds (1971) sono esemplari. C’è una sorta di incantesimo per ciascuna forma di vita e un’attenzione fisica estrema per tutto quello che vediamo. Ecco che l’aria appare, si fa presenza imprescindibile.
Fondamentalmente il dilemma a cui Laura Grisi ci espone è la necessità di mettere a fuoco oggetti e forme quando tutta la realtà è metereologica (in perenne mutazione) e il pensiero stesso è movimento.
Intervista a cura di Alessandra Poggianti ed Elvira Vannini
Contributed by
Alessandra Poggianti
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