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Vincenzo Estremo
11 novembre 2020

la transizione spiritistica dell’immagine

William H. Mumler, Mary Todd Lincoln e lo spirito di suo marito, il pesident Abraham Lincoln, 1872.

Alla fine del XIX secolo un fotografo americano di nome William H. Mumler si inventò la spirit photography, un genere fotografico che ebbe molto successo tra New York e Boston. Mumler riscosse un grande successo sfruttando la condizione di disagio sociale e di trauma collettivo dei cittadini americani susseguente alla cruenta guerra civile che stava interessando il Paese. I familiari di migliaia di soldati morti in guerra si recavano da Mumler con una foto dei loro cari facendosi rifotografare dalla stesso Mumler che prometteva di catturare l’immagine dei defunti grazie a una sua supposta abilità di “impressionare” gli spiriti con la tecnologia fotografica. La storia di questa colossale truffa è in realtà il pretesto per scrivere un incipit sulla storia dell’occupazione capitalistica dell’aria. Una storia in cui la partnership tecnologica e il determinismo liberal trova nella logica del cloud computing solo l’ultimo grado evolutivo di una pratica estrattiva che invece caratterizza a diversi livelli la complessità e le evoluzioni del pensiero capitalistico.

«Ora, se c’è uno spirito del marxismo cui non vorrei mai rinunciare, non è solamente l’idea critica o l’atteggiamento questionante […] »

«È piuttosto una certa affermazione emancipatrice e messianica, una certa esperienza della promessa che si può tentare di liberare da ogni dogmatica e persino da ogni determinazione metafisico-religiosa, da ogni messianismo. »

—Jacques Derrida, Spettri di Marx.

L’aggettivo analogico riferito alla fotografia richiama una serie di tecniche di produzione e stampa che appartengono alla riproduzione dell’immagine. Un aggettivo che nella produzione visuale contemporanea vive nei discorsi quasi solo in opposizione o in relazione alla sua controparte tecnica digitale. Quando si parla di «analogico » non si menziona quindi la possibilità di collocare, mediante questo termine, l’ordine logico e di appartenenza dell’immagine stessa, ma si allude, quasi senza dubbio, a un’accuratezza o a un rapporto indessicale, tanto per citare Charles Peirce, nella connessione fisica risultante tra l’oggetto fotografato e la sua immagine. Un patto, quello analogico, che nel caso dell’immagine ha visto il mondo reale appiattirsi su di un supporto rettangolare attraverso un processo chimico sino a generare una relazione oggettuale (ma non oggettiva) di affidabilità tra le cose e l’immagine. Un valore assoluto, una funzione unica e indistinta in cui l’apparente presta un valoroso servizio alla fantasia.1 Eppure, come in ogni patto anche in questo dell’immagine i termini dell’accordo possono non essere del tutto chiari e l’effetto risultare poco più di una sensazione. L’immagine analogica quindi susciterebbe – in questo caso meglio usare il condizionale – un senso di verità, di fiducia, a partire da basi e condizioni che a quanto pare sembrano essere estremamente deboli. Qualcosa che proprio come accade con la sorella o discendente digitale, ci spinge a pensare che in fin dei conti tutto quello che “sembra” o che appartiene all’ambito dell’ottico e dell’apparire, non può che suscitare dubbi piuttosto che verità.

In questo testo mi occuperò della trasmissione dell’immagine, del legame fragile che questa trasmissione ha con l’aria e di come questa trasmissione abbia prodotto una memoria genetica dell’immagine stessa. Lo farò parlando di fantasmi e di come la loro inconsistenza, la loro ubiquità e leggerezza, siano caratteristiche pretestuali e utili al dominio. Un potere che si estende nell’aria attraverso l’immagine e che popola le nuvole che usiamo per trasmettere le nostre informazioni, magazzini pieni di dati e infestati di spiriti. Mi occuperò quindi di una nuova indessicalità dell’immagine e di come sia stato e sia tuttora possibile pretendere di imporre il vero a partire dall’evidenza dell’iconico. D’altronde la trasmissione delle immagini è qualcosa che ha a che vedere con un indagine energetica che dalla luce e attraverso lo spazio, ritorna all’oggetto.

Telefotia

Il legame tra le cose e la loro rappresentazione interessa il genere umano sin da quando si è iniziato a pensare alle raffigurazioni dei corpi nelle loro forme. Un’idea che con l’evoluzione tecnica si è legata anche alla trasmissione oltre che alla riproduzione. Il concetto del dislocamento, che al pari della ripetibilità ha segnato i confini tra autenticità e copia, è uno dei temi di cui parla Walter Benjamin quando definisce la distanza come contrario di vicinanza. L’inavvicinabile, come l’aura, è in connessione con l’immagine culturale,2 mentre la riduzione della distanza è direttamente proporzionale all’esposizione dell’immagine stessa.3 Riflettendo sul viaggio dell’immagine mi sono chiesto cosa sia accaduto alle immagini nel percorso che le ha portate a essere sempre più visibili, ma non dalla prospettiva dell’idealismo estetico, né supponendo l’esistenza di un mondo delle immagini sospeso a mezz’aria – sostanza di mezzo che se intercettata si rivela nella sua visibilità o copia4 – ma nell’egemonia della loro funzione socio economica. Come detto in precedenza, la nascita della fotografia deve considerarsi come un avanzamento e/o un adattamento di condizioni preesistenti a innovate possibilità tecnologiche di registrazione, da chimica a informatica. Appurare che un’immagine potesse essere “trasmessa” o fatta a partire dalla sua sorgente oggettuale sino alla sua forma superficiale attraverso un sistema a camera oscura, è come ammettere sin dalla comparsa del primo fenomeno di foto-riflessione, l’esistenza di una fantomatica telefotia.5 Un fenomeno invisibile in cui un ipotetico raggio di luce ha intercettato un altrettanto ipotetico corpo solido in grado di rifletterne l’onda e di produrre uno spostamento dall’oggetto all’immagine. Questa disposizione di pensiero è in realtà più probabile di quanto sembri, infatti, se alla base della fotografia e della cinematografia c’è stato il desiderio di materializzare, duplicare e trasmettere le immagini, a questi stessi desideri ha fatto il paio l’illusione di un iperuranio delle immagini. Un grande schema trascendentale intermedio, in grado di omogenizzare e preannunciare l’idea stessa dell’immagine con la sua parte fenomenica. Questa rappresentazione intermedia, in cui convivono le linee esterne (outline) dell’elemento empirico, può considerarsi lo schema trascendentale dell’immagine, ovvero il motore meta-archeologico di ben più concrete forme di materializzazioni. Questo spazio indefinito diviene, in una rilettura sociale delle forme, un luogo di conquista. Un ambito che subisce costantemente gli attacchi dell’uomo, una “aria” che contiene e che trasporta dei contenuti neutri, che viene pensato come qualcosa che è o che potrebbe essere. L’idea è quella di un immagine modificabile nello spazio e nel tempo del suo viaggio. Un oggetto che cambia la sua forma e il suo senso lungo il tragitto che dalla cosa arriva alla forma a prescindere dal supporto.

I fantasmi del capitalismo

Negli anni sessanta del XIX secolo l’incisore e fotografo William Howard Mumler produsse la sua prima fotografia spiritica, stava eseguendo una prova per realizzare un autoritratto e nello stampare la lastra si accorse che alle sue spalle vi era una presenza appena percettibile. Mumler riconobbe nella figura eterea una sua parente morta da anni, era il 1860 e William Howard Mumler dichiarava, non senza una certa spavalderia, di essere in grado di fotografare gli spiriti dei defunti attraverso uno speciale processo fotografico.6 La storia di Mumler ci parla indirettamente di una modalità di sfruttamento in cui è l’innovazione tecnica, in quel caso l’esposizione multipla e la produzione di un’immagine attraverso la sovrapposizione di più immagini in diverse esposizioni, a concedere a un uomo il governo su altri uomini. La supremazia tecnica insieme a specifiche condizioni sociali – l’invenzione di Mumler coincise con un particolare periodo della storia americana post guerra civile7 – aprì le porte a una nuova forma di sfruttamento capitalistico dell’intero apparato visuale. Una nuova industria immateriale8 che si andava formando in quegli anni proprio a partire dalle premesse di diffusione e distribuzione capillare dell’immagine.9 Quella di Mumler era più di una semplice frode, infatti, il suo essere stato un pioniere nella nuova arte della fotografia e l’aver sfruttato una tecnologia sorprendente per immediatezza e manipolazione, apriva delle questioni riguardanti il concetto stesso di autenticità e veridicità, ma soprattutto mostrava alcune delle possibilità capitalistiche dell’immagine. Si cercava essenzialmente non solo di far apparire attraverso l’uso delle macchine fotografiche, quello che la vista umana non poteva percepire, ma di creare un’economia di queste presenze totalmente basata sull’effetto psicologico dell’immagine. Una condizione del possibile iconico, come quella dell’ingrandimento nella proiezione cinematografica dei fratelli Lumiere o la cronofotografia di Eadweard Muybridge, che ha gettato le basi per un capitalistico-psichico che diviene spirito religioso10 in un connubio indissolubile tra “sacro e profano” totalmente basato sull’immagine. Uno stadio ulteriore del capitalismo che serve all’appagamento di preoccupazioni, tormenti e inquietudini a cui in passato davano risposta le religioni.11 Le apparizioni, gli irraggiamenti, i fantasmi, la fede cieca che si aveva nella fotografia quale mezzo tecnologico per ritrarre la realtà, sono le basi di una forma spiritualistica di capitalismo, in cui la macchina è l’estensione di un Dio ignoto e onnipresente. Un capitalismo diafano che si andava distinguendo dalle altre forme di relazioni tra capitalismo e religione in qualità di uno spiritualismo capitalista concepito come totale e onnipresente. Una nuova forma dispositiva in grado di sfruttare la dimensione psichica che iniziava a caratterizzarsi prima come un imperialismo dell’animo e poi quale strumento totale e pervasivo. Sono le immagini al servizio dell’arte a essere all’avanguardia nei processi di ristrutturazione capitalistica,12 diventando organi vitali nello sviluppo di un sistema economico con il quale intrattenere una relazione profonda. L’arte d’altronde, offre una promessa emancipatoria in cui la destabilizzazione e l’esclusività si pongono alla base di un capitalismo contemporaneo avviatosi verso una transizione che da gerarchica diviene flessibile e autonoma. Un sistema vivo in una società trans-estetica13 e animata da fantasmi.

Le fabbriche d’immagini

Nel loro valore espositivo le immagini diventano sempre più accessibili e sono pronte per essere messe a disposizione di tutti, fruibili in ogni momento e in ogni luogo. Così come con lo spiritualismo fasullo dell’esposizione multipla di Mumler, l’immagine contemporanea ci introduce in una nuova dimensione in cui il culto e la magia scompaiono a favore del trionfo della tecnica messa a servizio di una pseudoscienza. Se con la lezione di Mumler si inizia a dedurre uno spostamento della funzione dell’immagine da strumento ritualistico a oggetto del capitale, allo stesso modo si intuisce che l’immagine potrebbe assumere una funzione operativa e indipendente rispetto agli esseri umani.14 Lo spirito di queste immagini ha una “natura” puramente tecnica e così come accadeva con le truffe di Mumler, la sua accuratezza visuale è un fattore accessorio. Questi spiriti monouso, spesso destinati a un’operazione specifica, sono costretti a vagare in una multidimensione digitale,15 caratterizzati da una mancanza di alterità perché prodotti e autoprodotti come dei cliché. Nella tappa odierna di questo viaggio dell’immagine, la creazione di una sovrapposizione fotorealistica vicina alla riproduzione fotografica, è la questione che sta caratterizzando anche la creazione digitale dell’immagine contemporanea. Le foto spiritiche di Mumler sono in sostanza approdate all’interno di un sistema di valori, quello capitalistico, occupando e stazionando in forme contemporanee di scambio socio-culturale. Gli spettri di Mumler non sono più frutto di una semplice doppia esposizione fotochimica, ma vivono nell’implementazione e nel perfezionamento dei renderizzatori realistici a cui affidiamo il compito di simulare la realtà fisica che ci circonda. Il rendering digitale e lo studio dei comportamenti della luce e delle superfici, diviene il presupposto di una nuova iperrealtà.16 Quest’ultima, come descritta Jean Baudrillard, è come un velo sulla realtà, la quale finisce per essere spenta dal compimento del digitale. L’iperrealtà definisce dei modelli che non esistono nella fattualità dei luoghi, ma che vivono solo in quanto simulazioni. Una sorta d’iperuranio virtuale, dove la realtà stessa viene a generarsi in maniera alternativa e del tutto distaccata dall’esperienza umana, senza più riferimenti a essa. Una riproduzione in cui è ancora presente un dibattito sulla veridicità o sulla modificabilità dell’immagine digitale e in cui si afferma, spesso in maniera frettolosa, una sostanziale instabilità del digitale a differenza di una relativa immutabilità dell’immagine analogica.17 La verità, se di verità si può parlare, sta al di fuori del formato, è qualcosa che non ha a che vedere con la materia, ma con il suo processo costitutivo.18 Le immagini non sono in grado di mentire in quanto digitali, ne sono portatrici del verbo perché analogiche, sono dei patti, dei compromessi con la percezione. La verità dell’immagine è instabile e in ridefinizione così come quella della percezione. D’altronde per un istinto cieco e potente, come lo definiva David Hume, il genere umano è portato a pensare che le immagini presentate dai (e ai) sensi siano gli oggetti esterni senza avanzare il sospetto che quelle stesse immagini possano essere solo una rappresentazione.19 Un antropocentrismo visuale che in sostanza è una forma di cecità. Una debolezza su cui si fonda l’inganno dell’immagine e su cui si è costruita la fabbrica contemporanea. Uno spazio in cui la volontà di credere ai propri occhi si incarna nel motto di un famosissimo meme che circola in versioni abbastanza differenti tra loro e che si basa sostanzialmente sul conflitto tra l’immagine di un prodotto e la sua fattura effettiva. In questi meme – solitamente dei dittici – appare la scritta “When You Order Something Online VS When It Arrives” sovrapposta o a commento di due immagini. Il meme ovviamente gioca sulla delusione delle aspettative nell’oggetto, ma apre una questione collaterale sulla relazione indessicale dell’immagine digitale. Infatti, così come ci racconta il meme vi è una costruzione certosina dell’immagine fotorealistica che va oltre la fotografia dell’immagine stessa e che si scopre essere vicina a una realtà fattuale povera e senza le “qualità” della rappresentazione. Dietro all’expecation20 sospesa a mezz’aria, vi è la fabbrica che genera la realtà così come la vediamo. Uno spazio diffuso popolato da lavoratori deregolamentati che definiscono lo shading delle superfici modellando tutto a seconda della luce incidente con un’ampia gamma di colori di texture mapping, in grado di simulare il bump e le irregolarità di tantissimi materiali. Questi lavoratori passano le loro pause pranzo al computer e spesso sentono la nostalgia delle passeggiate all’aria aperta, aggiungono filtri di distance fog agli screensaver perché mai nessun’aria è così tersa da essere completamente trasparente.21 Shadows, ombre proiettate, soft shadows, ombre parziali prodotte da sorgenti di luce estese, reflection, riflessioni speculari o quasi, transparency, la trasmissione della luce attraverso un oggetto, rifrazione, la deviazione della luce nel passaggio da un mezzo all’altro, la global illumination, l’insieme della luce riflessa nella sequenza: sorgente di luce > oggetto > camera; luci caustiche, l’accumulo di luce riflessa o rifratta proiettata in forme caratteristiche su altri oggetti, il DoF (Depth of Field), simulazione della progressiva sfocatura degli oggetti posti a distanza crescente, il motion blur, simulazione della sfocatura degli oggetti in movimento, la SSS (sub-surface scattering), simulazione della penetrazione della luce in un oggetto traslucido, l’ambient occlusion, simulazione del comportamento della luce con i volumi occlusi e l’anisotropia, simulazione di un materiale che riflette la luce in modo diverso, sono solo alcuni degli effetti che bisogna restituire in un nuovo regime di simulazione foto-realistico dell’aria in cui fluttuiamo. Questi lavoratori producono spettri. I fantasmi che Mumler desiderava far apparire nella foto non sono più sul fondo a sovrastare o ad accompagnare il soggetto del ritratto, con il tempo sono diventati il centro della rappresentazione. Il quotidiano che non pretende nulla dalla realtà, che non incombe ma che incarna il reale. L’immagine ha demandato il suo desiderio, non sa nemmeno perché è tornata, eppure questa volta è più di un corpo. Una comunità fatta di fantasmi, senza un leader come spettri di corpi senza uno scopo.


  1. Questo è uno di quei casi in cui la lingua e la cultura italiana non offrono un’adeguata precisione nella distinzione esistente tra i diversi ambiti e le definizioni possibili di immagine. Sarebbe infatti opportuno definire la differenza tra l’idea di rappresentazione e le rappresentazioni. Per ovviare a questa sovrapposizione terminologica si proverà quando necessario, a definire con precisione gli ambiti semantici e nomenclatori di cui si parla quando si menziona il termine immagine. In lingua inglese il lavoro di W. T. J. Mitchell e la differenza tra image e picture aiuta di certo a definire meglio le sfumature esistenti intorno all’immagine. W. T. J. Mitchell, Scienza delle immagine. Quattro concetti fondamentali, in Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, Duepunti, Palermo 2008, pp 5-17.  

  2. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, p. 49. 

  3. Ivi. p. 28. 

  4. Si fa riferimento non solo a Friedrich Schelling e all’estetizzazione della conoscenza, ma a tutta la corrente dell’idealismo a partire dalla tripartizione platonica di realtà, idee e apparenza delle cose sensibili.  

  5. L’ipotesi di una telofotia potenziale e non materializzata e quindi fuori dalla tecnologia di grafia dell’immagine, non deve essere confusa con la belinografìa o la telefoto, ovvero quel sistema ideato e messo appunto da Édouard Belin che per primo ha permesso la trasmissione di immagini a distanza mediante la tecnica della fototelegrafia. 

  6. Tra i protagonisti della fotografia spiritica oltre a William Howard Mumler, sono da annoverare Fred A. Hudson e l’inglese William Hope che anche dopo esser stato smascherato pubblicamente, continuò a godere di favori illustri e del supporto pubblico di Sir. Arthur Conan Doyle. 

  7. La nascita della Spirit Photography negli Stati Uniti e in Gran Bretagna è direttamente connessa all’affermarsi di forme di spiritualismo non legate ai riti e alle tradizioni apotropaiche e propiziatorie in uso nelle società ritualizzate e non industrializzate. Lo spiritualismo del XIX secolo è un movimento pseudoreligioso e senza un’organizzazione formale, qualcosa connesso alle classi medie e alte della società borghese delle nuove potenze industriali che deve essere messo in opposizione al concetto di magia. Peter Manseau, The Apparitionists: A Tale of Phantoms, Fraud, Photography, and the Man Who Captured Lincoln’s Ghost, Houghton Mifflin Harcourt, Boston 2017. 

  8. Quando si parla di relazione tra industria e cultura visuale e immaterialità è impossibile non riferirsi alla definizione statunitense di motion picture industry riferita a Hollywood e per estensione a tutta l’industria cinematografica. Un’accezione che pur non appartenendo del tutto alla cultura europea dove la produzione di film aveva una connotazione prettamente artistica, è divenuta un modello universale ed egemonico capace di creare e diffondere prodotti ben riconoscibili. Un’industria immateriale e dissimile rispetto a quelle della costa occidentale, che viene indentificata sin dalla sua nascita come “fabbrica dei sogni”. Susan Hayward, Hollywood in Cinema Studies: The Key Concepts, Routledge, Londra 2006, p. 205. 

  9. Sulla complessità e la formazione storica della cultura visuale contemporanea hanno contribuito in maniera sostanziale le tecniche di riproduzione e distribuzione dell’immagine come cinema e fotografia, cosi come sottolineano gli studiosi Antonio Somaini e Andrea Pinotti nel volume Cultura visuale, Einaudi, Torino 2016.  

  10. Roberta Iannone, Oltre l’alienazione. Il malessere socio-psicologico ai tempi del capitalismo spirituale, in “Salute e Società” n. 2, 2020, pp. 164-169. 

  11. Walter Benjamin, ha affrontato in Gesammelte Schriften (Capitalismo come religione) la condizione costitutiva del capitalismo come religione, ovvero di una dottrina non guidata da un particolare spirito religioso come nel noto sillogismo weberiano tra protestantesimo e capitalismo, ma di qualcosa che abbia il carattere stesso della religione. Per il testo di Benjamin in italiano si veda Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: Capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 9-12. 

  12. Ève Chiapello, Luc Boltanski, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano Udine, 2014. 

  13. Gilles Lipovetsky, Jean Serroy, L’estetizzazione del mondo. Vivere nell’era del capitalismo artistico, Sellerio, Palermo, 2017, pp. 41-113. 

  14. Dal concetto di immagine operazionale elaborato da Harun Farocki e pensato come strumento necessario per la comprensione del mondo, cine-percezione della realtà che esclude l’uomo attraverso le macchine per le macchine, o immagini simultanee che corrispondono a pluralità di sguardi però invisibili, nasce a mio avviso una nuova produttività dell’iconico. Si veda tra gli altri; Aud Sissel Hoel, Operative Images. Inroads to a New Paradigm of Media Theory, in “Image – Action – Space” 2018, pp. 11–28.  

  15. Altrove ho definito questo spazio come “multiverso”. Vincenzo Estremo, Teoria del lavoro reputazionale, Milieu, Milano 2020, pp. 110-112.  

  16. Con la diffusione delle moderne tecnologie digitali, si apre il dibattito sulla percezione del mondo mediata dalle immagini. Le nuove modalità di comunicazione creano quella che Jean Baudrillard definisce come hyperréalité (iperrealtà), ovvero la simulazione di quaclosa che non è mai esistito realmente. Jean Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Pgreco, Milano 2008. 

  17. Sul concetto di truth claim si guardi il lavoro di Tom Gunning, What’s the Point of an Index? Of, faking Photographs, in “Nordicom Review”, vol. 25, issue 1-2 Aug 2004, pp. 39-49. 

  18. Rispetto alla funzione del digitale come prova vorrei menzionare il caso e la metodologia di analisi del gruppo Forensic Architecture e Forensic Oceanography che si basa proprio sulla duplice relazione tra indessicalità e accuratezza visiva delle immagini digitali. Un lavoro anestetico ma puramente evidenziale in cui si costruisce una nuova dimensione della fattualità digitale. 

  19. David Hume, Ricerca sull’intelletto umano, Laterza, Bari 2004, p. 239.  

  20. Un’altra declinazione del meme è quella del dittico “Expectation VS Reality”. Questa versione del meme va oltre il semplice desiderio dell’acquisto pur’ restando nella sfera conflittuale di rappresentazione/immaginazione digitale e fattualità.  

  21. La prospettiva aerea di Leonardo da Vinci è uno dei testi con il più ampio numero di citazioni nei siti di aforisma online.