nell’aria
[trascrizione di ra#3]
“Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare…” — Piero Calamandrei, Discorso sulla Costituzione, 1955
Aria pura, sana, buona, aperta, libera
Oppure
Aria corrotta, inquinata, viziata, cattiva, malsana, chiusa
Campare d’aria
Vendere aria fritta
Cambiare aria
Qui non è aria
L’aria si fa pesante
Discorsi a mezz’aria
Stare a pancia all’aria
Mandare tutto all’aria
Fabbricare castelli in aria
Parole campate in aria
Aria da funerale
Avere l’aria di…
Darsi delle arie
L’aria, anche detta etere, è un elemento naturale a cui sono spesso associate le proprietà di purezza e spiritualità. Rappresenta il caldo, l’umido, il genere maschile. Il suo punto cardinale è l’Est. Tra gli umori essa governa il sangue. In alchimia è associata al triangolo, al numero 3, in quanto mediatrice tra fuoco e acqua.
La natura aborre il vuoto (Horror Vacui); non appena esso cerca di “formarsi”, ella si industria per prenderne il posto con della materia.
Secondo Tommaso Campanella il mondo naturale era permeato da una forza attrattiva che induce tutti i corpi a ricercare il contatto reciproco, in modo da riempire ogni porzione dello spazio ed eliminare il vuoto.
In ogni epoca e cultura il concetto di respiro è andato oltre l’atto fisico del prendere fiato. Esso ha da sempre compreso accezioni simboliche legate all’idea di spirito, anima, energia vitale. In molte culture, quando il corpo muore, azzerando le proprie funzioni vitali, l’anima esce fuori da esso sotto forma di ultimo respiro.
Nella cultura greca classica la parola pneuma significava sia respiro, inteso come aria che entra nei polmoni, sia soffio vitale, inteso come spirito che abita il corpo.
Un grande uomo, in sanscrito maha-hatma (grande anima), è colui che, con il proprio respiro, ispira le altre anime, le fa vibrare e respirare ampiamente con la sua. L’ispirazione cos’è se non un largo respiro?
In Cina, e in gran parte delle culture orientali, il concetto di Qi rappresenta l’energia, la forza vitale che si manifesta nel respiro, ma anche nella circolazione di ogni fluido vitale. Esso riempie il corpo dell’individuo, così come tutto lo spazio tra cielo e terra.
In filosofia la pneumatologia è la scienza dello spirito, da non confondersi con la pneumologia, cioè la branca della medicina che studia l’apparato respiratorio.
Il respiro è l’atto che permette all’ossigeno di arrivare agli organi e nutrirli; esso ci tiene in vita, ma è anche la sede della nostra anima, della nostra spiritualità. In tal senso molte discipline orientali focalizzano la propria attenzione sull’atto del respiro. Concentrandoci su di esso noi ci concentriamo su noi stessi, recuperiamo un contatto diretto col nostro corpo, così come col nostro spirito: lo ascoltiamo e assecondiamo, recuperiamo calma, controllo ed essenzialità.
Con la scarsità di aria i polmoni si restringono, e con essi si restringe il pensiero umano. Si fa asfittico, corrotto.
L’aria è altresì necessaria per mettere in atto qualsiasi forma di linguaggio orale. Le numerose sequenze articolatorie che coinvolgono bocca, faringe e laringe, indotte dagli stimoli della corteccia cerebrale, non potrebbero scaturire in suoni senza la presenza dell’aria respiratoria controllata dalla cassa toracica.
E’ nell’aria dello spazio, attraverso l’aria del corpo, e con il pneuma dello spirito che l’opera di Henri Chopin si manifesta.
Tra una visione strutturalista che considera universali le strutture grammaticali e sintattiche del linguaggio e una visione romantica, che invece vede nel linguaggio lo spirito di un intero popolo, questo artista apolide (ma cittadino del mondo) ha cercato una sintesi attraverso la propria pratica artistica.
Chopin nasce come poeta orale per il teatro e la radio parigina.
Intorno al 1954 riceve in dono un magnetofono e con esso comincia un’esplorazione elettronica della voce e del corpo. Se Joyce aveva sperimentato una decomposizione del linguaggio, l’intento di Chopin è quello di lavorare sulla lingua per raggiungerne le particelle essenziali, andando oltre a quanto fatto da Dada e lavorando sui semplici fonemi (le unità fonologiche minime di un sistema linguistico). Registrando su nastri magnetici, ascoltando e registrando sopra il registrato, tagliando e incollando, rallentando e velocizzando, e poi via via utilizzando amplificatori, mixer, ed apparecchiature più sofisticate, Chopin diventa un vero esploratore della voce del corpo. In essa convergono le venature, la texture vocale, le vibrazioni della laringe, gli schiocchi labiali, i sibili, tutti i rumori corporei e gutturali. La voce potente e libera viene captata elettronicamente, ma con essa il poeta intende raggiungere l’energia primitiva che rappresenta, registrare quell’esperienza sensoriale totale che si manifesta in una disorganizzazione calcolata di tutti i sensi. Sicuramente la lezione di Artaud non gli fu indifferente. L’idea di un’arte dello shock, di un teatro fisico e sensoriale capace di creare sorpresa, spaesamento e catarsi, hanno accompagnato la formazione della sua poetica e della sua pratica artistica. Il suo fine ultimo era quello della libertà. E se questo concetto fa venire in mente il primo Futurismo, Marinetti e le sue parole in libertà, che sicuramente insieme a Dada e al Surrealismo, ad Antonin Artaud, e al Lettrismo, rappresentano progenitori e colleghi imprescindibili per Chopin, egli arriva a compiere una sterzata ancora più violenta rispetto al linguaggio e all’idea di poesia. La sua idea di libertà, infatti, rappresenta una reazione ad un’idea di Logocentrismo che vede nel linguaggio comune e retorico una forma inequivocabile di totalitarismo, oppressione e dominazione. Il linguaggio, inteso come convenzione attraverso cui si espletano tutti i rapporti sociali, non è altro che una forma di potere esercitata dalle gerarchie socio-politiche sulle masse. Esso ci irreggimenta, attraverso di esso siamo “guidati”, condotti, spinti verso un determinato comportamento sociale all’interno di codificate strutture produttive. Chopin dice: siamo schiavi della retorica, prigionieri delle spiegazioni. Ecco allora che la poesia intesa come energia primaria diventa una forza disorientante capace di mettere in crisi un intero sistema. La poesia in Chopin si libera della formulazione verbale e semantica. Diventa non verbale, non semantica, diventa una celebrazione dell’anarchia e dell’esuberanza della voce. Le microparticelle fonetiche da cui essa è composta diventano l’alfabeto disordinato di una nuova lingua potenzialmente universale, capace di abbattere confini geopolitici e barriere culturali.
Questa sperimentazione si espleta nella ricerca della materia fonica prelinguistica e in una rinuncia alla scrittura tradizionale.
In realtà, attraverso la pratica della poesia concreta, Chopin mette in atto visivamente quello che sperimenta uditivamente. I suoi dattilopoemi sono pagine scritte a macchina dove la riduzione fonetica diventa riduzioni segnica. I segni minimi del linguaggio (le lettere, i segni di interpunzione) si ripetono sul foglio creando una partitura fitta e organizzata, che segue dei patterns compositivi che danno vita a opere formalmente ordinate e ritmate. Questi segni neri, blu, viola, si ripetono su carta dattiloscritta e in seguito vengono impressi su fogli di acetato trasparente, conferendogli un’aria ancora più simbolica. Simili ai pannelli luminosi utilizzati per le visite oculistiche, anche queste tavole rappresentano una chiave di lettura altra della realtà. Esse agiscono come degli schermi attraverso cui esercitare una visione nuova e libera sulle cose, al contrario rispetto ai teleschermi con cui il Grande Fratello di Orwell spia e plagia i suoi cittadini nello stato di Oceania, dove ogni forma di pensiero critico viene annullato proprio attraverso la creazione di un Neolinguaggio (Newspeak), privo di qualsiasi sfumatura e sottigliezza interpretativa. In questa lingua ogni parola ha un significato chiuso e minimo, perfettamente codificato, in modo da non dare adito a necessità o velleità interpretative: nessuna domanda, nessun dubbio, nessun esercizio mentale. Il tutto per raggiungere l’atrofia mentale, quello stato di paralisi critica necessario per il prosperare di ogni forma di dittatura.
In una lettera del 17 gennaio 1967, inviata a Artes Hispanicas, Chopin scrive: “What then is the function of the Word, which has the presentation to affirm that such a thing is clear? I defy the Word.” E prosegue “we are slaves of rethoric, prisoners of explanation that explains nothing. Nothing is yet explainable.” E ancora “Let us know that the day is of oxygen, that the night eliminates our prisons, that the entire body breaths and that it is a wholeness, without the vanity of a Word that can reduce us.”1
Da una parte il respiro, il corpo, la verità, dall’altra la parola, la sua mendace inutilità. Il corpo è in continuo divenire, esso partecipa del flusso costante e incessante del mutare delle cose, non può essere circoscritto, definito, registrato. In tale senso la poesia sonora di Chopin rappresenta un atto di resistenza a qualsiasi forma di irreggimentazione, un atto di auto-affermazione.
Per Chopin non c’è vita senza corpo. Quanto mai questo concetto è stato messo in discussione ultimamente…Mi viene in mente il saggio di Galimberti intitolato Il Corpo2, e il suo tentativo di opporsi alla dittatura della tecnica che fa dell’uomo un organismo sotto il controllo della scienza medica, che ne controlla i parametri vitali, ignorando che un corpo è l’unione del suddetto organismo con la sua mente (la sua centrale operativa) e con la sua anima (il motore che lo fa vibrare attraverso il soffio vitale). Tra la paura del virus che ci ha soggiogati e annientati e le polemiche negazioniste, esistono innumerevoli sfumature che riguardano l’impossibilità di ridursi al solo sopravvivere per paura di morire. Si è palesata una twilight zone, una terra “ai confini della realtà”, fatta di paradossi filosofici e pratici. Se l’uomo è un animale sociale, la sua socialità minata dal virus si può realizzare soltanto più in potenza, in un contatto virtuale messo in pratica attraverso uno dei tanti device che popolano le nostre case. Ma quello virtuale è un contatto paradossale, una contraddizione in termini, poiché senza il mio corpo io non esisto pienamente.
E la società esiste senza la massa? Senza la massa la società è azzerata e così pure il suo potere taumaturgico. Canetti scrive: “Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato…Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo di esserne toccati. Nel caso migliore si è tutti uguali…Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro.”3
La paura invece aleggia ovunque in questo periodo storico. Si trasmette per via aerea così come il virus che attacca i nostri polmoni, che ci vuole impedire di respirare, che ci allontana imponendoci il distanziamento sociale, che ci trasfigura obbligandoci a mettere una maschera sul nostro volto, a stravolgere la nostra fisicità, la nostra identità.
Chopin rifiuta di assoggettare la Vita alla Parola. Il corpo è essenziale alla vita poiché esso soltanto può sentire, vedere, ascoltare, toccare, insomma vivere senza bisogno che tutto questo diventi un “discorso”, senza bisogno di spiegazioni, senza la necessità di una trasmissione verbale e semantica. La parola scritta è lontana dalla vita e rappresenta per lui una menzogna che si perpetra attraverso la sua possibile infinita ripetizione. Il suono della parola rappresenta invece quell’attimo di verità che si manifesta nel suo essere qui e ora, che vive nel presente e non si può catturare, replicare, trasmettere. La parola nell’adesso è un gesto passeggero che non vuole spiegare niente (poiché nulla vi è da spiegare), ma vuole trasmettersi attraverso la sua energia vitale, attraverso il respiro; essa vuole raggiungere la condivisione di uno stato d’animo, di un’emozione, di un scambio emotivo e affettivo. Utopisticamente questo nuovo linguaggio non-semantico può rappresentare una forma di comunicazione libera e universale che può partecipare attivamente alla creazione di un mondo nuovo, libero e veramente democratico.
La parola nel solo suo suono è l’unica reale, non altrettanto il suo simulacro scritto.
Se Artaud cercava la parola di prima del logos, per Chopin la parola scritta è un cadavere, e solo il suo suono si fa carne. Per questo nel 1972 Chopin realizza un’opera incredibile e apparentemente assurda intitolata La Digestion. Attraverso l’ingoio di una sonda che registra i suoni provocati nello stomaco dalla digestione, egli intende sovveertire il processo che porta la parola a scaturire dal cavo orale attraverso le sequenze articolatorie di bocca, faringe e laringe. Egli inverte il processo della fonazione e ingoia lo strumento che normalmente serve a registrare e riprodurre la parola. In senso lato quindi egli ingoia la parola, celebra la sua sublimazione nei meandri reconditi da cui essa dovrebbe scaturire, in quello stomaco (dal greco stoma) che in origine significava proprio bocca e solo in seguito divenne, per sineddoche, il lemma di uso comune per indicare l’apparato digestivo.
La tecnologia diventa uno strumento di sperimentazione e liberazione capace anche in qualche modo di contribuire a un riordino del caos. Il corpo, il suono e la macchina lavorano insieme. Il microfono diventa una lente d’ingrandimento sotto la quale la voce si manifesta pienamente attraverso il suo ritmo, il respiro, la gutturalità, la labialità, il timbro, il gorgheggio, la vibrazione delle corde vocali, lo schiocco della lingua, il movimento delle labbra. Il corpo partecipa come un direttore d’orchestra che sintetizza i vari elementi in una partitura libera e sempre diversa. Per tale motivo Chopin cominciò a realizzare delle performance che gli permettevano di dare vita a quella scrittura tutta orale e gestuale che pure le registrazioni su nastro rischiavano di comprimere in una mortifera staticità. Come un noise-maker contemporaneo l’artista s’ingaggia in un corpo a corpo con il materiale pre-registrato e, con i suoi gesti sul palco manda istruzione al tecnico del suono, che nel backstage deve seguire le sue indicazioni e modulare così la risposta di ogni strumento. La performance diventa una celebrazione di arte totale potente e viva nel momento presente.